S.H.E
Safety, Health, Equality
S.H.E is Annalisa Aloi






Chi sei? Cosa fai?
Buongiorno, sono Annalisa Aloi, ho 24 anni e attualmente sono disoccupata. Nella mia vita ho fatto diversi lavori in settori differenti tra cui l’educatrice per l’infanzia, l’addetta alle vendite, ho lavorato in un call center e l’aiutante amministrativa.
Tu fai parte delle Categorie Protette, puoi parlarcene? Che cosa si intende con questo termine?
Esatto, faccio parte delle Categorie Protette perché ho avuto un tumore da piccola e, in seguito a questa malattia, ho riscontrato un deficit alla mano destra. Per questo motivo ho appunto avuto diritto ad un posto tra le Categorie Protette.
L’iniziativa delle Categorie Protette è sicuramente positiva, tuttavia non è strutturata al meglio perché appunto le Categorie Protette, come dice il nome stesso, dovrebbero essere tutelate ma, nel pratico, le aziende hanno si degli sgravi fiscali se assumono qualcuno che ne fa parte, però hanno l’obbligo di tenere quella determinata persona per più tempo; per fare un esempio pratico se uno stage generico è di 6 mesi, quello di un soggetto facente parte delle Categorie Protette sarà di 12 mesi. Ci sono poi persone che hanno un’invalidità molto alta e per questo non possono essere licenziate, questo mette in difficoltà le aziende che spesso non vogliono correre il rischio.
La Legge 68 ha poi introdotto l’obbligo per le aziende di assumere una determinata percentuale di persone facenti parte delle Categorie Protette.
Le aziende beneficiano degli sgravi fiscali, tuttavia sono spesso restie ad assumere persone che potrebbero poi non essere efficienti sul lavoro.
Le grandi aziende tendono a gestire in maniera corretta le Categorie Protette, probabilmente perché hanno molti posti di lavoro e possono ricollocare le persone, per esempio mia nonna già negli anni ‘60/’70 in Fiat è stata esentata da una serie di mansioni a causa di alcuni problemi di salute. Nelle piccole aziende, invece, spesso chi fa parte delle Categorie Protette si ritrova a svolgere lavori per cui non è adatto o, al peggio, che potrebbero mettere a rischio la sua salute.
Il Centro dell’Impiego poi, dovrebbe aiutare le persone delle Categorie Protette a trovare un lavoro; purtroppo, parlando per esperienza personale, non è così ed è solo un “mangia mangia” generale che non va a tutelare persone che hanno disabilità fisiche o mentali.
Inoltre, chi fa parte delle Categorie Protette viene visto come “diverso” e rischia di essere discriminato dai colleghi e dal datore di lavoro che spesso mancano di empatia.
È importante tutelare le persone appartenenti alle Categorie Protette perché sono persone che nella vita hanno già sopportato molto. Il lavoro di per sé può già essere molto pesante, a maggior ragione se si deve ancora sopportare il peso di essere visti come diversi dagli altri colleghi.
Sei soddisfatta delle tue precedenti esperienze lavorative?
No, non sono affatto soddisfatta soprattutto perché in ciascuno dei posti in cui ho lavorato non ho mai sentito di aver trovato il mio posto. Ho avuto diverse esperienze negative e, in un caso in particolare sono stata anche vittima di mobbing da parte delle mie colleghe.
L’esperienza peggiore è stata quando ho lavorato come addetta alle vendite in un supermercato. Le mie colleghe in quel caso mi parlavano spesso alle spalle e facevano pesare ogni piccolo sbaglio che commettevo. Mi lasciavano spesso sola, nonostante la mia difficoltà alla mano, sebbene sapessero che faccio fatica a sollevare pesi a causa della mia difficoltà, anzi spesso, nonostante questo, mi facevano fare lavori pesanti come caricare le casse di vino e birra e io avevo ovviamente paura di farle cadere. Nel momento in cui ho chiesto aiuto, poi, non ho avuto alcun riscontro da parte loro.
Quali sono state le principali difficoltà che hai riscontrato nel tuo percorso lavorativo?
Come ho appena spiegato le mie difficoltà sono legate al fatto non tanto di essere una donna quanto più alla difficoltà motoria legata alla mia mano. Certo, essere una donna non aiuta: durante la mia esperienza di lavoro presso un call center sono stata pagata meno rispetto a un mio collega uomo.
Questo trattamento l’ho riscontrato anche al di fuori dell’ambito lavorativo e penso sia molto grave.
Quanto i lavori che hai svolto influivano sulla tua vita privata? (Le aziende offrivano opzioni di lavoro flessibile?)
In base alle esperienze che ho avuto posso dirti che dipende dal tipo di lavoro. Il settore dell’educazione per l’infanzia, ad esempio, mi gratificava, mentre, per quanto riguarda gli altri contesti lavorativi, mi sono trovata male perché a mio parere l’esperienza lavorativa dev’essere appunto un’esperienza che non occupi la mia intera giornata ma soprattutto che mi gratifichi.
Una cosa che mi spaventa per il futuro e che vorrei crearmi una famiglia ma, purtroppo, in Italia troppo spesso questo significa dover rinunciare alla propria carriera lavorativa. Questo in altri paesi non succede quindi risolvere il problema non è impossibile, è solo necessario studiare il problema e proporre soluzioni efficaci come il dare la possibilità anche al padre di occuparsi attivamente del bambino oppure introdurre la nursery all’interno delle aziende. Se la tipologia di lavoro lo consente, poi, è anche utile proporre degli orari di lavoro flessibili e la possibilità di fare smartworking.
Le soluzioni a questi problemi dovrebbero però partire dall’alto, dalle istituzioni statali.
A proposito della maternità aggiungo che mi è captato, nel corso di un colloquio conoscitivo, che mi venisse chiesto se avessi intenzione di avere dei figli e, come ormai sappiamo bene, questa cosa è illegale.
Il problema ha tanto a che fare con l’aspetto culturale, dal momento che, in alcuni paesi tra cui l’Italia, la donna è ancora troppo spesso legata al ruolo di madre mentre dagli uomini non ci si aspetta necessariamente l’assunzione attiva di questo ruolo. Penso che questo, oltre che a essere dannoso, sia anche piuttosto triste, dal momento che spesso i padri non riescono a creare legami profondi (come quelli con la madre) con i figli. A questo si aggiunge il fatto che è anche giusto che i padri si assumano parte della responsabilità genitoriale. Questi discorsi sembrano anacronistici ma esistono ancora molte famiglie in cui queste dinamiche sono la normalità e, io stessa ne ho conosciute.
Penso che a livello di salute mentale una donna che lavora è una donna più serena, dal momento che è indipendente e può gestire i suoi soldi come meglio crede senza dover chiedere ogni cosa al partner.
Anche il bambino potrebbe trarre beneficio da questa situazione, dal momento che potrebbe imparare a staccarsi dalla madre, ovviamente solo durante le ore lavorative, e conoscere altri contesti utili ad arricchirlo. Ad esempio, se un bambino cresce con la madre tenderà, almeno in un primo momento, ad assumere il suo punto di vista sulla realtà. Al contrario, crescendo con persone diverse, come ad esempio il padre, i nonni, gli educatori per l’infanzia ecc, tenderà ad avere un quadro più ampio sulla realtà. Inoltre, vivendo in un contesto famigliare in cui i genitori sono sereni e appagati, questo potrebbe portare benefici anche a lui.
Hai mai ricevuto un trattamento diverso in quanto donna lavoratrice e come hai reagito? Sono mai state messe in dubbio le tue competenze professionali perché sei una donna?
Come ho precedentemente accennato mi è capitato in passato ma, non avendo avuto grosse esperienze in ambito lavorativo non posso portare molti esempi quindi citerei il caso del call center o quello del colloquio in cui mi è stato chiesto se volessi figli.
Sai se nelle aziende in cui hai lavorato esistevano procedure aziendali per affrontare situazioni di emergenza legate a molestie o discriminazioni sul posto di lavoro?
Teoricamente esistono ma poi in pratica non vengono applicate. Ad esempio l’Articolo 612 del Codice Penale condanna alla reclusione da 6 mesi a un anno chiunque molesti o minacci la vittima provocandole attacchi di panico. Per la durata della mia esperienza da addetta alle vendite, ad esempio, quando tornavo a casa scoppiavo a piangere ogni volta però poi mi dicevo che dovevo sopportare finché non ce l’ho più fatta e sono andata via, mi hanno costretto. Io, a causa della mia difficoltà, avevo un contratto di stage da 12 mesi ma non sono riuscita a portarlo a termine a causa dell’ambiente tossico in cui mi sono ritrovata. Adesso sono stati presi provvedimenti e molte di quelle persone sono state mandate via da quel punto vendita.
Come descriveresti il rapporto con i colleghi? Noti differenze nelle interazioni tra colleghi di sesso maschile e femminile?
Rimanendo ancora per un attimo sulla mia esperienza da addetta alle vendite, in quel caso gli atteggiamenti peggiori li ho riscontrati da parte delle mie colleghe donne mentre andavo molto d’accordo con il mio collega uomo. Una delle colleghe, poi, aveva il figlio con delle difficoltà simili alle mie e il suo atteggiamento nei miei confronti è stato davvero triste. Credo che lo facesse per non essere esclusa dalle altre e tenersi il lavoro ma non è comunque giustificabile.
Cosa potrebbe migliorare dei lavori che hai svolto?
Sicuramente il problema principale era la quasi totale mancanza di sensibilità nei confronti dell’altro. Penso che nel lavoro in generale dovrebbe esserci un po’ più di empatia; spesso nel lavoro sei un numero e a nessuno importa di te a livello umano. Inoltre mi è più volte mancata la presenza di un gruppo. Questo non è capitato per ogni lavoro che ho svolto e ho proprio notato che, quando si crea un gruppo coeso l’ambiente lavorativo ne trae beneficio.
Ci dovrebbe essere una maggiore apertura mentale e leggi che tutelino meglio il lavoratore, perché si parte sempre dalle leggi.