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S.H.E

Safety, Health, Equality

S.H.E is Elena Raviol

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Chi sei? (cosa fai?)

 

Mi chiamo Elena Raviol, sono un’infermiera e lavoro alle Molinette dal 2008. Ho iniziato dalla cardiologia metacoronarica e adesso invece sono nel settore ambulatoriale diagnostico care hospital. Per quanto riguarda il mio percorso di studi, dopo la laurea triennale in infermieristica ho fatto un master per il coordinamento che è durato due anni e in futuro vorrei proseguire gli studi prendendo ancora una laurea specialistica finalizzata a preparare il personale all’accesso alla dirigenza, insomma apre la strada ai concorsi per dirigente.

 

Perché fai questo lavoro? La tua professione ti soddisfa?

 

Amo molto il mio lavoro, specialmente l’aspetto umano e relazione è quello che mi ha sempre motivata molto nel perseguire questa carriera. Ho iniziato a prendere in considerazione questa professione in occasione della malattia di mia nonna, a cui ero molto legata. All’epoca sono rimasta molto colpita da questa figura che stava tanto a contatto con il malato e che secondo me era proprio un elemento cardine e importante.

Sono davvero felice ai aver intrapreso questa professione ed è una scelta che rifarei mille volte.

 

Ci sono state delle difficoltà durante la tua carriera lavorativa e come le hai affrontate/stai affrontando?

 

Difficolta si, nel senso che purtroppo l’organico infermieristico è sempre scarso quindi i turni sono impegnativi e difficilmente conciliabili con una vita famigliare. Da questo è derivata la mia scelta di abbandonare il contesto di reparto e di spostarmi in una realtà ambulatoriale o comunque di pensare a funzioni di coordinamento proprio perché permette di avere turni diurni. Io ad esempio ho due figli piccoli, una di 10 anni e uno di 8.

Quindi si, in sostanza le difficoltà hanno a che fare con la carenza di organico, la turnistica un po’ pesante, le utenze e poi c’è anche un discorso di rapporto interprofessionale con i medici eccetera dove, fondamentalmente, l’infermiere che è decollato dal punto di vista della formazione universitaria non da tantissimi anni fa ancora abbastanza difficoltà ad affermare la propria professionalità in un contesto che spesso è ancora abbastanza medicocentrico. Ancora oggi i medici tendono a sottovalutare il ruolo dell’infermiere che può essere da quello che si occupa dell’igiene personale del paziente a quello che fa la rianimazione. A volte noi infermieri facciamo ancora abbastanza difficolta ad autodeterminarci, poi ovviamente questo dipende tanto dal contesto e dal livello di sensibilità e volontà di collaborazione delle persone con cui si lavora.

 

Quanto il tuo lavoro influisce sulla tua vita privata? (La tua azienda offre opzioni di lavoro flessibile? In che modo la flessibilità lavorativa può influire positivamente sulla tua vita professionale e personale?)

​

Di lavoro ce n’è tantissimo, io poi sono anche una lavoratrice pendolare quindi già il viaggio mi porta via parecchio tempo. Ho provato a richiedere più volte di essere trasferita ma la mobilità risulta piuttosto difficile e attualmente mi viene difficile anche in virtù delle mie esigenze perché io lavoro in un contesto in cui faccio turni diurni e il weekend sono sempre a casa. Tornare a fare in turni per avvicinarmi è da valutare proprio per la questione dei bambini. Per quanto riguarda le agevolazioni inquanto mamma e donna ci sono quelle garantite dal Contratto Collettivo Nazionale però ad esempio oltre a un certo lasso di tempo la maternità viene pagata solo più al 30%, oltre ai 6 anni non viene più pagata, la malattia bimbo è riconosciuta solo per i primi 3 anni del bambino, dai 3 agli 8 anni si hanno solo 5 giorni non retribuiti all’anno (del bambino) e dopo agli 8 anni non ci sono altre agevolazioni quindi se si ha bisogno di stare a casa bisogna utilizzare le ferie.

Ovviamente il lavoro flessibile in campo infermieristico non c’è, ci sono solo le agevolazioni istituite a livello contrattuale come la maternità che prevedono una serie di ore retribuite.

Nel mio lavoro gestire lavoro e famiglia non è facile perché ad esempio se il bambino sta male di notte e uno ha un turno non lo può lascare scoperto. In questo caso è necessario avere un aiuto ma questo non è possibile sempre e per tutti, ad esempio mio marito è medico quindi non è sempre a casa la notte.

 

Hai mai ricevuto un trattamento diverso in quanto donna lavoratrice e come hai reagito? Sono mai state messe in dubbio le tue competenze professionali perché sei una donna? differenze salariali?

 

Io sono entrata a lavorare come infermiera tramite un concorso pubblico dove il fatto che uno sia uomo o donna non contava nulla. Non ho mai lavorato nel privato dove credo venga privilegiato l’uomo sempre per la questione legata alla gravidanza però, lavorando nel pubblico, io questa cosa non l’ho subita. Sicuramente durante entrambe le mie gravidanze la cosa non è stata presa bene nel mio ambiente e questo perché si andava a togliere una risorsa infermieristica (che già sono scarse di numero) e quindi non è stato un bel momento perché mi sono state fatte pesare le mie gravidanze. Spesso i coordinatori e i capi servizi tendono a mandare più l’uomo in contesti in cui l’assenza può pesare, però col fatto che anche l’uomo ha diritto alla paternità, al di là dei mesi di gravidanza, il rischio in ambiente pubblico esiste per entrambi i sessi e si annulla questa discriminante.

 

Quando sei rimasta incinta la tua gravidanza ti è stata fatta pesare di più dagli uomini o dalle donne? Hai riscontrato differenti reazioni?

 

Ma in realtà un po’ tutti ma non perché ero io, più che altro per il fatto che, non potendo coprire io stessa i miei turni, gli altri hanno dovuto lavorare al posto mio anche perché lavorando magari in un contesto dove c’è chi ha la 104, c’è chi ha il part-time, c’è chi ha il bimbo piccolo in allattamento quindi lavora 6 ore eccetera, finisce che ci sono sempre i soliti 4 o 5 che devono farsi tutti i pomeriggi, le notti, i weekend e quindi il comfort lavorativo diventa disequilibrato fra il personale. Non è rancore ingiustificato, semplicemente sulle persone che rimangono ricade poi una mole di lavoro maggiore.

 

Esistono procedure aziendali per affrontare situazioni di emergenza legate a molestie o discriminazioni sul posto di lavoro?

 

Ci sono ovviamente servizi interni come la psicologa e la medicina del lavoro. Mi sono anche trovata ad avere a che fare con colleghe vittime di violenza domestica e in questo caso la gestione è di appannaggio del coordinatore però non credo ci siano dei servizi specifici per questo tipo di emergenze. 

 

Cosa potrebbe migliorare nel tuo lavoro? (Pensi che ci siano sufficienti politiche aziendali a sostegno del bilanciamento lavoro-vita personale?)

 

Sicuramente ci vorrebbe una maggiore sensibilizzazione per il ruolo svolto dall’infermiere che spesso non è una figura riconosciuta dai civili, per lo meno in maniera consona. Ci vorrebbe anche una maggiore vicinanza tra la dirigenza e il comparto perché, almeno nella mia azienda ospedaliera trovo che ci sia ancora grande distanza per cui spesso i problemi legati alla gestione della vita privata ma anche delle problematiche interne non si riescono tanto a risolvere perché non si sa come approcciare, non c’è grande comunicazione e questo comporta il fatto che spesso sembra che i problemi non si possano risolvere. Probabilmente aumentando il dialogo e promuovendo una comunicazione più diretta e meno verticale si potrebbe arginare il problema. Ovviamente ci sono molti lavoratori da coordinare quindi immagino che questa gerarchia sia stata istituita per un motivo pratico però penso sia una cosa su cui si potrebbe lavorare. Questa struttura impedisce di avere feedback diretti e spesso lascia le persone senza risposte chiare. Io ad esempio ho chiesto più volte il part-time però purtroppo è difficile da ottenere e mi è stato sempre detto di no senza mai darmi la possibilità di un confronto diretto. Io vorrei avere il part-time per poter gestire meglio la mia famiglia e anche perché il mio lavoro è impegnativo a livello emotivo perché abbiamo solo a che fare con l’utenza. Nel mio caso ho a che fare con un’utenza che transita dall’ospedale e in ambulatorio è meno carica emotivamente però pensiamo ai reparti e ai luoghi di area critica dove c’è costantemente il rapporto con la morte e la sofferenza, diciamo che rimane abbastanza provante a livello emotivo e si arriva a casa carichi di storie, di sofferenza e anche di fatica fisica. Il lavoro dell’infermiere è comunque faticoso perché si passa l’intero turno lavorativo a gestire i pazienti, si è sempre in piedi, spesso si affrontano emergenze per non dimenticare tutti l’aspetto della responsabilità perché un errore lì non è un errore burocratico che in qualche modo si può aggiustare. Qui se si fa un errore con i farmaci, le trasfusioni eccetera le conseguenze sono molto pesanti per cui anche il grado di responsabilità è alto e anche quando uno torna a casa la mente non è completamente libera, è difficile staccare dall’ospedale. Questo dipende anche dal settore ovviamente, io adesso sono più tranquilla dal momento che le mie prestazioni lavorative iniziano e finiscono nella giornata, però nei reparti in cui ho lavorato per diversi anni il pensiero rimane sempre al lavoro. C’è poi anche la questione del senso di colpa del lasciare i pazienti sofferenti e tornare a casa. Ci sono tanti aspetti che non lasciano libera la testa e va a finire che anche quando non lavori sei lì. È necessario trovare il giusto equilibrio tra distacco ed empatia per preservare la propria integrità personale. Ci va un po’ di tempo e un supporto psicologico che sebbene noi abbiamo non è così consigliato. Viene proposto dalla dirigenza solo in caso di situazioni straordinarie, ad esempio alla mia equipe era stato consigliato in occasione della morte accidentale di un nostro collega o durante il Covid-19 che è stata una situazione emotivamente drammatica per i sanitari. Ad esempio in quel caso per la prima volta mi sono distaccata dai miei figli che ho mandato dai miei genitori in modo che non rischiassero il contagio. Il supporto psicologico in quel caso è arrivato a posteriori e io non ne ho usufruito trovandomi in seconda linea ma c’erano colleghi che facevano 8 ore con i malati Covid, tutti imbardati, senza poter mangiare o andare in bagno perché vestirsi e svestirsi era la fase più critica di contaminazione.

Pochi si sono tolti da questa missione, magari chi aveva delle patologie già di per sé critiche e quindi è stato esentato, altrimenti sono stati tutti assolutamente coraggiosi, almeno da quanto ho visto io. Però è stato davvero critico, ci sono degli effetti rebound non indifferenti.

 

Come descriveresti il rapporto con i colleghi sanitari? Noti differenze nelle interazioni tra colleghi di sesso maschile e femminile?

 

Si la differenza si nota. Io lavoro in ambito universitario che forse è ancora più complesso rispetto all’ambito ospedaliero e trovo che ci sia ancora parecchia discriminazione, sia professionale che legata al sesso del lavoratore. Capita che l’uomo faccia la voce grossa nei confronti della donna e spesso sono i medici nei confronti delle infermiere, soprattutto se operano in reparti diversi. Questo atteggiamento è sia classista, dal punto di vista professionale, che legato alla questione del sesso. Questo non succede solo tra medico e infermiere ma anche tra infermieri, ad esempio mi è capitato di sostituire il mio coordinatore (uomo) e in quei casi per ottenere le cose facevo più fatica di lui. Questo non è legato solo al sesso ma potrebbe derivare sia dal mio carattere più pacato sia perché non sono effettivamente di ruolo però secondo me è anche dovuta alla questione del sesso. Penso che la donna sia ancora vista come un po’ più debole e manovrabile ecco.

C’è poi tutta la questione dei pazienti che hanno sicuramente un’aggressività superiore con gli infermieri rispetto che col medico e questo è dovuto al ruolo gerarchico. Questo è ulteriormente accentuato quando l’infermiera è una donna. Ho vissuto in prima persona un brutto episodio di un signore che era stufo di aspettare la mamma che era in visita e ha cominciato a utilizzare un tono insistente e una provocazione verbale costante, io mi sono andata a informare più volte sul tempo di visita però c’erano delle problematiche e lui mi si è avvicinato testa a testa e a buttato a terra la panchina su cui era seduto. Si fosse comportato così con tutti sarebbe stato chiaro che era un uomo irascibile, però appena è uscito il medico uomo si è subito giustificato assumendo un atteggiamento rispettoso.

La differenza c’è infatti io da un certo punto in poi chiamo il medico per interagire con questo tipo di persone.

 

Nel caso tu, o qualcuno a te vicino, abbia vissuto esperienze lavorative fuori dall’Italia, hai riscontrato differenze? Se si positive o negative?

 

Il ruolo dell’infermiere è più riconosciuto all’esterno, sia economicamente che come figura professionale. Qua in Italia invece veniamo considerati come quelli che aiutano il medico. La figura dell’infermiere è stata ausiliaria fino alla legge 42 del 1999 che ha abolito il termine “ausiliaria” però staccarsi dal retaggio del passato richiede un po’ di tempo.

Io personalmente non ho mai avuto occasione di lavorare all’estero, ho però qualche indicazione sull’Inghilterra dove so che c’è una modalità diversa di operare, quindi gli infermieri sono paramedici e per acquisire una qualsiasi abilitazione bisogna fare corsi specifici e quindi il funzionamento è diverso. Anche la considerazione è sicuramente più alta, anche solo guardando i telefilm si vedono spesso medici e infermieri che cooperano mentre in Italia questo non avviene e l’infermiere è ancora visto come il mero esecutore di compiti impartiti dai medici. Certo arriviamo da quello però è necessario considerare che adesso il ruolo di infermiere prevede un percorso di studi universitario e spero che col tempo la concezione cambierà. Adesso abbiamo i sindacati, siamo passati a essere un ordine professionale e quindi si stanno facendo importanti passi in avanti. Sono contenta di questo perché penso sia un lavoro importantissimo e che per molti aspetti è ben diverso da quello del medico. L’infermiere ha una relazione di stretto contatto con il paziente e svolge un ruolo di rilievo. Questo abbiamo visto che ha i suoi contro ma anche tanti pro.

 

Che consiglio daresti a una donna che vuole fare il tuo stesso lavoro?

 

Io faccio formazione in università da vari anni ed è un aspetto che amo tantissimo perché risco a vedere come sta evolvendo la situazione in ambito universitario, interagisco con gli studenti e vedo la loro motivazione. Il mio consiglio è di concentrarsi molto sullo studio perché la possibilità di arricchire noi stessi di competenze e abilità, non solo tecniche, è fondamentale per farci riconoscere come ruolo e soprattutto cercare di non perdere mai la motivazione perché lo scontro con la realtà è veramente tosto: spesso non c’è poco tempo, non ci sono risorse, ci sono i doppi turni, non ci sono presidi e capita di lavorare in condizioni “disagiate” considerando che si lavora in contesto ospedaliero. È però importante non perdere mai la motivazione dell’aiutare, del cercare di trovare quel grado di empatia che permetta di andare al lavoro motivati ad aiutare senza arrivare al burnout. Bisogna tenere a mente che si ha a che fare con persone, già questo di per sé spesso difficile in contesto lavorativo, che soffrono. Spesso si incontrano situazioni drammatiche ma bisogna cercare di non mettere quel muro di distacco che sfocia nel cinismo che a volte viene natura ma toglie la parte emotiva e quella vicinanza umana. 

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